Perché i servizi sociali allontano i bambini dai loro genitori? E perché non mandarli subito in un’altra famiglia con due nuovi genitori invece di farli vivere in una comunità? Sono domande che ci sentiamo spesso porgere da aspiranti volontari o sostenitori che si avvicinano a FATA commossi dalla sorte di questi bambini e incapaci di arrendersi all’idea che non tutte le mamme e i papà vogliono il bene dei propri figli e che i servizi sociali non sono i cattivi della storia. La maggior parte dei nostri bambini ha alle spalle storie drammatiche. I servizi sociali sono intervenuti per difenderli e li hanno inseriti in comunità per proteggerli.
Così è stato anche per E., una ragazzino di 14 anni, accolto in Fata da 4 anni. Ogni bambino reagisce in modi e tempi diversi alle esperienze dolorose che ha vissuto. Ci sono bambini che sviluppano precocemente sintomi di varia natura e gravità, anche di tipo psicotico; altri bambini, che “sembrano” indifferenti, illesi, reagiscono e affrontano più avanti negli anni (spesso in età adolescenziale o adulta) il trauma subito. Come operatori sociali, il nostro compito è quello di stare accanto a loro ed aiutarli ad affrontare, a gestire e superare il loro dolore, quando sarà il momento e attivando tutte le risorse necessarie.
E. sembrava appartenere a questa seconda categoria: sembrava aver raggiunto una sua tranquillità ed equilibrio. Per questo, dopo 4 anni in comunità e dopo aver verificato l’impossibilità del rientro nella famiglia d’origine, noi operatori di FATA, insieme ai servizi sociali di riferimento, abbiamo valutato opportuno l’avvio di un progetto di affido e individuato la famiglia affidataria tra le famiglie dell’associazione. All’improvviso alcuni fatti apparentemente banali della quotidianità hanno fatto riaffiorare in lui il ricordo dei maltrattamenti subiti. L’angoscia e il dolore riemersi sono stati così forti da rendere necessario il ricovero in ospedale e l’avvio di cure di tipo neuropsichiatrico. Nel corso di circa un mese, l’emergenza è stata superata. Le cure prontamente attivate hanno fatto si che la situazione migliorasse giorno dopo giorno, scongiurando così il ricovero in una comunità terapeutica. Ma la cosa più sorprendente sono l’affetto e la motivazione della famiglia affidataria che, di fronte a tanta sofferenza e alle enormi conseguenti complicazioni e responsabilità, non si è tirata indietro ma ha confermato la sua disponibilità ad accogliere e aiutare E., ora più di prima. L’inserimento sarà rimandato di qualche mese, il tempo necessario affinché E. si riprenda e la famiglia si prepari adeguatamente ad accogliere lui, la sua sofferenza ma anche l’infinita gioia che saprà portare.
Questa storia vuole raccontare non solo la generosità di questa famiglia affidataria ma anche il senso delle comunità educative come quelle di FATA. E., come la maggior parte dei bambini che ha vissuto esperienze di maltrattamento e abusi, una volta allontanati dalla famiglia d’origine, difficilmente sono subito pronti all’inserimento in un’altra famiglia. Quasi tutti hanno bisogno di un periodo in comunità dove professionisti competenti possono aiutarli ad affrontare le esperienze subite, ad avere di nuovo fiducia negli adulti, a ritornare in qualche modo bambini e pronti ad essere di nuovo figli. Questo è un percorso complesso che necessità di amore ma anche di competenze che normalmente le famiglie affidatarie non hanno. Per questo è fondamentale il ricorso alle comunità educative.
Solo così l’affido potrà avere una chance di successo, quando tutti “i passaggi” di un complesso lavoro di rete (tra servizi sociali, Tribunale per i minori, comunità, famiglia d’origine e nuova famiglia affidataria) sono stati compiuti, a tutela del bambino e delle famiglie coinvolte.